Il recente corteo organizzato da Cgil e Uil a Torino, in occasione dello sciopero generale, ha messo in evidenza un cambiamento profondo e inquietante nel panorama occupazionale e sociale della città. Mentre le bandiere sventolavano, l’entusiasmo e la passione di un tempo sembravano un ricordo lontano. Questo evento ha funzionato, in un certo senso, come un termometro che misura quanto le dinamiche del lavoro e della giustizia sociale siano cambiate, segnando un passaggio da una lotta vibrante e coesa a una realtà di silenzio e incertezze. Senza dubbio, il fatto che la Cisl non abbia partecipato alla manifestazione ha amplificato le divisioni all’interno del mondo sindacale, evidenziando le difficoltà di queste organizzazioni nel presentarsi uniti di fronte agli attacchi del sistema economico attuale.
Torino, che una volta era considerata il fulcro dell’industria italiana, oggi presenta un’immagine ben diversa. Un tempo, le sue strade erano piene di operai che con orgoglio marciavano per difendere i loro diritti, ma oggi la scena è cambiata in modo drammatico. Il rumore delle fabbriche chiuse e abbandonate ha sostituito il brusio dei macchinari al lavoro. L’industria, che per decenni ha dato lavoro e dignità, si è dipinta di grigio. Le storie di disoccupazione e insoddisfazione riecheggiano tra i palazzi e le piazze, trasformando quella che una volta era un’area fiorente in una zona di crisi profonda.
La deindustrializzazione ha avuto un effetto devastante e ha lasciato segni tangibili nella vita quotidiana dei cittadini torinesi. Una generazione di lavoratori che ha dato vita e sostegno all’economia ora si sente esclusa, messa da parte e dimenticata. Mentre le aziende italiane si trovano a fronteggiare la crescente concorrenza internazionale, sempre più territori subiscono le conseguenze del disinvestimento e delle delocalizzazioni. Le fabbriche, che un tempo rappresentavano un’identità collettiva, ora sono vuoti silenziosi, testimoni di una lotta che sembra persa. È un cambiamento che ha sradicato gran parte della forza lavoro e ha trasformato una cultura del lavoro in un’eco lontana di un passato glorioso.
Il corteo del quale si parla ha dato voce a una realtà triste: la mancanza di entusiasmo e l’assenza di quella passione che un tempo animava gli scioperi in questa città. Le bandiere, pur sventolando, apparivano meno orgogliose e il numero dei partecipanti era ben lontano da quelli che si sarebbero visti in anni passati. Le facce, cariche di rassegnazione e amarezza, facevano pensare a quasi un’epitaffio. Un tempo la piazza vibrava con canti e slogan, ora si sentiva solo un tono sommesso. Testimoniando lo stato d’animo dei manifestanti, è emerso un sentimento di disillusione che ha oscurato persino il desiderio di combattere per i diritti tanto precari.
Le bandiere e gli striscioni, che avrebbero dovuto unire in una lotta comune, hanno invece evidenziato una dispersione di intenti. L’assenza di una reale coesione tra i diversi gruppi partecipanti sembrava tradire la fragilità del movimento. Partecipanti espressivi, in numero ridotto, come quelli della Fiom Mirafiori, hanno riempito le strade con un seguito esiguo e, in generale, l’impressione era quella di una protesta che stentava a trovare il proprio posto in un contesto che cambiava rapidamente. Le tradizionali immagini di un movimento operaio unito e consolidato sembravano un ricordo lontano, mentre le nuove generazioni si sentivano fuori luogo in un corteo che avrebbero dovuto rappresentare.
L’aspetto più sorprendente e anche stridente del corteo è stata la presenza di gruppi politici e sociali che hanno cercato di dare il loro supporto, ma sembravano più estranei al contesto. In particolare, la partecipazione di una delegazione del Partito Democratico ha lasciato perplessi molti manifestanti, poiché il loro aspetto curato sembrava incompatibile con le difficoltà e le ansie di chi vive una lotta quotidiana per la dignità lavorativa. La loro presenza, piuttosto che rappresentare un sostegno, pareva un tentativo di chiudere la distanza crescente tra le élite politiche e le necessità delle persone comuni.
In contrasto con questa immagine, i collectivos, che hanno portato con sé simboli e slogan provocatori, hanno riacceso memorie di passate frizioni e tensioni. Anche se la loro partecipazione non ha portato a scontri significativi, certamente ha aggiunto ulteriore complessità a un quadro già di per sé fragile. La loro scelta di esibire bandiere palestinesi e intonare canti di protesta ha rammentato i cortei più radicali di un tempo, ma la loro attitudine non è riuscita a risollevare la mancanza di unione e coesione tra le diverse anime che compongono oggi la protesta.
È evidente che la manifestazione è stata una fotografia di un movimento sindacale in cerca di identità e con un futuro che appare incerto. La partecipazione, seppur diversificata, ha mostrato chiaramente come le divisioni siano presenti e abbiano un impatto sull’efficacia degli obiettivi collettivi, mescolando la storia con la mancanza di prospettive per i giorni a venire.