
A scuola, il fulcro dell’apprendimento non risiede tanto nei metodi didattici, quanto nella qualità delle relazioni umane che si instaurano. Questa consapevolezza è condivisa da molti educatori di spicco del XX secolo, come John Dewey e don Lorenzo Milani. Tuttavia, nonostante le numerose conferenze e dichiarazioni di intenti, le intuizioni di figure come Maria Montessori, Mario Lodi, Albino Bernardini e Alberto Manzi sono rimaste in gran parte inascoltate o, nel migliore dei casi, visibili solo in contesti ristretti, lontani dai rigidi schemi burocratici dei ministeri dell’istruzione.
Didattica e finzione pedagogica
Nel libro Lettera a una professoressa, pubblicato dalla Libreria Editrice Fiorentina, si legge: «Durante i compiti in classe lei passava tra i banchi, mi vedeva in difficoltà o sbagliare e non diceva nulla». Questa descrizione rispecchia una realtà ancora presente in molte aule italiane, dove la didattica sembra spesso improntata a una forma di “finzione pedagogica”. Si fa riferimento a domande trabocchetto, progettate per mettere in difficoltà gli studenti, una prassi che continua a persistere in diversi licei e istituti tecnici. La critica si estende anche ai metodi di insegnamento, dove si enfatizza la ripetizione di contenuti piuttosto che la comprensione profonda. La nota a piè di pagina che definisce il “Sapegno” come un libro di storia della letteratura, in cui il docente si aspetta che gli studenti ripetano pedissequamente, ne è un chiaro esempio.
Il pensiero di don Milani
Il pensiero di don Milani è emblematico: egli sosteneva che la scuola, per essere veramente democratica, deve avere una struttura monarchica, dove il “monarca” deve fornire agli studenti gli strumenti necessari per comprendere e vivere la democrazia. La vera sfida per gli educatori è quella di colmare le distanze tra loro e gli studenti, cercando di comprendere le esperienze personali di ciascun allievo. È fondamentale esplorare le origini e le passioni degli studenti, ponendo domande che rivelino la loro storia e le loro aspirazioni.
Introspezione degli educatori
Questo approccio richiede un’introspezione da parte degli educatori: perché hanno scelto di intraprendere questa carriera? Quali obiettivi si pongono? È necessario riconoscere che la loro storia personale si intreccia con quella degli studenti. L’insegnamento, quando si basa su un confronto autentico, trascende la mera esecuzione delle istruzioni e abbraccia una dimensione di responsabilità profonda, che va oltre le norme giuridiche e morali. Prendersi cura degli studenti, secondo il principio dell’I care, implica guidarli verso un futuro che spesso rimane sconosciuto.
Il linguaggio come strumento di comunicazione
Il linguaggio, come sottolineato da Sant’Agostino, rappresenta uno strumento fondamentale per comunicare con il nostro “maestro interiore”. Non è solo un mezzo di espressione, ma un elemento cruciale per evitare che i sentimenti si trasformino in emozioni represse. Questo vale sia per gli immigrati, che affrontano le stesse difficoltà dei bambini del Mugello, sia per i ragazzi italofoni, che necessitano di adulti in grado di incarnare i valori che promuovono. Nelle scuole Penny Wirton, ad esempio, si cerca di unire le forze tra studenti italiani e immigrati, formando i primi come tutor per i secondi, un’iniziativa particolarmente rilevante nell’era digitale.
Gerarchie di valore nella scuola
La scuola ha il compito di stabilire delle gerarchie di valore nel vasto panorama del web, aiutando i giovani a discernere tra ciò che è realmente importante e ciò che non lo è. È essenziale fornire loro strumenti di orientamento basati su valori etici, in grado di collegare pensiero e azione, rinnovando così lo spirito provocatorio e vitale di don Lorenzo Milani. Egli affermava che la scuola può essere realizzata con pochi mezzi materiali: un po’ di gesso, una lavagna, qualche libro e la disponibilità di studenti più grandi a insegnare.