La questione degli investimenti in istruzione e ricerca è un tema cruciale per il futuro dell’Italia, tanto da farci riflettere su come le scelte odierne possano influenzare le generazioni future. La formazione dei giovani e l’innovazione scientifica stanno al centro della competitività e delle sfide globali. Ma quanto effettivamente il nostro Paese sta investendo in questi ambiti fondamentali?
Negli ultimi anni, l’istruzione pubblica in Italia ha visto un progressivo e preoccupante declino nel volume dei fondi a essa destinati. Nel lontano 2010, il nostro Paese allocava circa il 4,5% del suo Pil all’istruzione, un valore già al di sotto della media europea, fissata a 5,4%. Ma il trend è in calo: nel 2019, tale percentuale scende al 4% per arrivare a un drammatico 3,8% nel 2021. Che segnale manda tutto questo? Finanza pubblica in difficoltà e un futuro incerto per la formazione dei nostri giovani.
Se osserviamo attentamente, il problema non è solo quantitativo. La scarsità di fondi si va a riflettere anche sulla qualità dell’offerta formativa. Le scuole faticano a trovare risorse per aggiornare i materiali didattici e per garantire un ambiente che stimoli l’apprendimento. Questo provoca una spirale negativa che colpisce la preparazione dei ragazzi, chiave di volta per il progresso economico e sociale del Paese. E con meno investimenti, la sostenibilità a lungo termine dell’istruzione pubblica diventa una concreta fonte di preoccupazione.
Inoltre, i tagli agli investimenti nella formazione rischiano di creare un gap formativo tra le varie regioni italiane, amplificando le disuguaglianze già esistenti. Le aree più svantaggiate, in particolare, sono le più vulnerabili e meno in grado di attirare risorse e talenti. Mentre nel nord del Paese si continua a investire, il sud appare spesso trascurato. C’è così una rottura, un divario che può generare tensioni sociali e opportunità mancate, difficilmente risolvibili in tempi brevi.
Il campo della ricerca e dello sviluppo, purtroppo, non presenta una situazione molto migliore. Dal 2010 ad oggi, la quota di Pil destinata all’R&D è rimasta bloccata, passando solo da circa l’1,2% a un previsto 1,4% per il 2023. Una crescita che, seppur positiva, appare decisamente insufficiente se comparata con il fabbisogno reale del Paese e con la media europea, che si attesta attorno al 2,3%.
La verità è che la crescita è stata sostenuta in gran parte dai fondi del Pnrr, i quali non possono e non devono essere considerati come una soluzione duratura.
Da aggiungere, una questione di non poco conto: gli enti pubblici di ricerca affrontano sfide burocratiche enormi. Le leggi e le procedure vigenti non sembrano in grado di tenere il passo con le esigenze della ricerca scientifica, rendendo le attività di acquisizione dei materiali e delle attrezzature lente e, di certo, inefficienti. Un sistema che dovrebbe stimolare l’innovazione, si muove, invece, in un contesto pieno di ostacoli.
Le procedure e i vincoli da rispettare si traducono in ritardi inaccettabili per progetti che già di per sé devono rispettare precise tempistiche. Molto spesso le università e i centri di ricerca devono affidarsi ad intermediari, soccombendo a spese aggiuntive non giustificate. La questione diventa così un circolo vizioso, in cui le risorse disponibili si riducono ulteriormente a causa di ricarichi che variano dal 20% al 100%. Le conseguenze sono a dir poco devastanti: ciò che doveva essere un investimento in innovazione diventa, nella pratica, un drastico impoverimento delle capacità di ricerca.
Dietro a numeri che parlano chiaro, ci sono storie di ricercatori talentuosi che cercano opportunità all’estero semplicemente perché in Italia gli viene negata una carriera dignitosa. Il problema delle assunzioni negli EPR e nelle università è complesso, dettato più dalle fluttuazioni delle leggi di bilancio che da una vera e propria strategia a lungo termine. Risultato? Un sistema discontinuo che si traduce in lunghe attese per le assunzioni e massicci reclutamenti che spesso portano a un abbassamento della qualità.
Da un lato, si creano delle lacune occupazionali: talenti eccellenti, costretti a cercare opportunità all’estero, alimentano la fuga di cervelli. Dall’altro, la gestione del personale che riesce a rimanere è interlocutore di una situazione caotica, dove le assunzioni massicce non garantiscono affatto la qualità necessaria per un buon svolgimento della ricerca. Ne deriva un senso di insoddisfazione, sia fra chi si occupa della ricerca sia fra chi, dall’esterno, ha il diritto di chiedersi quali siano le reali prospettive future.
Di fronte a questa realtà, sorge spontanea la domanda: un Paese che investe così poco in istruzione e ricerca, può veramente sperare di restare competitivo nei prossimi decenni? E quale direzione sta intraprendendo l’Italia? Ad oggi, il rischio è che l’innovazione sia soffocata da una burocrazia opprimente e una visione politica probabilmente miope. Mentre ci si aspetterebbe un cambio di rotta, la recente bozza di legge di bilancio per il 2025 prevede addirittura tagli dell’8% ai fondi di finanziamento, una vera e propria beffa per il settore.
Con le sfide che ci attendono, urge una riflessione sul futuro: sono necessari investimenti adeguati, politiche incisive e una drastica semplificazione della burocrazia. Solo in questo modo può l’Italia trasformare le sue risorse in opportunità concrete, svelando un potenziale che attende solo di essere risvegliato.