Le regioni d’italia non sono solo venti. C’è, infatti, una nuova dimensione che si sta espandendo rapidamente: quella dei giovani italiani che lasciano il Paese. Candidati e lavoratori, spesso laureati, stanno cercando opportunità migliori oltreconfine, lasciando dietro di sé un’italia che, in alcuni casi, non offre loro ciò di cui hanno bisogno. Questo fenomeno, noto come “fuga di cervelli“, ha raggiunto proporzioni preoccupanti e continua a crescere.
Il fenomeno migratorio sta vivendo una delle sue più grandi ondate nella storia recente del Belpaese. Secondo l’AIRE, che monitora il numero di italiani residenti all’estero, dal 2011 al 2022 ben 1,3 milioni di italiani hanno lasciato ufficialmente il Paese. Le radici di questo esodo si possono ricondurre a svariate cause, dall’assenza di opportunità lavorative su suolo italiano all’inadeguatezza dei salari e delle prospettive future. Come evidenziato da Alessandro Foti, biologi di 37 anni originario di Milazzo, la mobilità migratoria non dovrebbe essere vista solo come un’opzione, ma anche come un obbligo per tanti giovani in cerca di un futuro migliore. L’analisi dei dati mette in luce un aspetto sorprendente e preoccupante: circa la metà di coloro che partono ha un titolo di studio universitario. Questo dato mette in evidenza come l’italia stia perdendo importanti risorse umane, giovani altamente qualificati destinati a esprimere il proprio potenziale all’estero.
Non è solo il numero dei migranti a preoccupare; l’età e il livello di istruzione di coloro che partono rappresentano un cambiamento significativo nella dinamica migratoria. Prima si pensava che la fuga fosse un fenomeno prevalentemente legato a persone meno istruite, mentre ora emerge chiaramente che stiamo assistendo a un esodo di menti brillanti e laureati. Questi giovani si trovano così a dover scegliere tra un lavoro precario in patria e la possibilità di realizzarsi in un contesto più stimolante e gratificante.
Chi sono i cervelli in fuga?
Il fenomeno della “fuga di cervelli” non è una novità . Si sente spesso questo termine, ma chi sono realmente coloro di cui stiamo parlando? Sono giovani ricercatori, studenti, imprenditori e professionisti in vari settori che, per cercare un futuro migliore, approdano in Paesi come Germania, Francia e Regno Unito. Il contesto accademico italiano, ad esempio, ha visto un calo significativo nel numero di professori e ricercatori formati. Dal 2009 al 2016, circa il 20% delle posizioni accademiche si è ridotto, spingendo molti talenti a cercare opportunità all’estero. La realtà è che i nostri “cervelli” vengono accolti più facilmente in ambienti dove ci sono maggiori garanzie di carriera e stipendi equi.
Uno dei dati più allarmanti è che, tra coloro che lasciano l’italia, solo un terzo ritorna dopo un periodo di lavoro all’estero, contrariamente a quello che si verifica in altri Paesi europei, dove i giovani tendono a tornare. Questo porta a un pensiero se non sia più opportuno parlare di “emigrazione di rimbalzo“, dove molti giovani si muovono da Sud a Nord, attratti da città come Milano e Torino, per poi decidere di espatriare. La situazione è tutt’altro che semplice e non si limita a una mera questione economica.
Cos’è il brain drain? Una questione sottovalutata
Il termine “brain drain” è stato coniato per la prima volta nel 1963 per descrivere l’emigrazione di scienziati britannici. Tuttavia, la situazione italiana presenta un’importante specificità : è spesso sottovalutata dai decisori politici. Le stime riguardo il numero di laureati e di ricercatori in fuga sono lontane dalla realtà . Foti sottolinea come la classe dirigente non percepisca appieno la gravità del problema. Molti dei talenti che partono non fanno più ritorno, portando con sé conoscenze, competenze e capacità che il Paese non ha modo di trattenere.
In modo più critico, la fuga non risparmia nemmeno i settori in cui l’italia è storicamente forte, come la ricerca scientifica. I giovani ricercatori e studiosi italiani che trovano opportunità all’estero godono spesso di condizioni migliori e di un ambiente più stimolante. C’è chi potrebbe considerarlo un furto di talenti, e a quanto pare, sarebbe proprio così. L’italia, pur avendo un sistema di istruzione superiore relativamente robusto, si trova a dover affrontare un problema di attrattività , che compromette il proprio futuro e sviluppo.
Tutto il mondo è paese: la mobilità internazionale dei giovani
Mentre il fenomeno dell’emigrazione giovanile è in aumento, gli altri Paesi europei stanno attuando strategie mirate per trattenere i propri talenti. Non semplicemente bloccando la fuga, ma offrendo opportunità sostanziali e convincenti. Per esempio, la Germania ha adottato misure significative dopo la crisi del 2008, investendo volumi enormi nella formazione e nella ricerca, un approccio che ha reso il Paese un polo attrattivo per i giovani talenti. La realtà è semplice: in Europa, i giovani cercano di andare via, ma in molti casi ritornano.
Diverso è quanto accade in italia. Le politiche per attrarre talenti stranieri e frenare l’emigrazione giovanile si sono limitate a iniziative poco efficaci, come gli incentivi fiscali, mentre in altri Paesi si punta ad avere migliori condizioni di lavoro, formativa e assistenziale per i giovani. Al di là dello stipendio, ci sono tanti altri fattori che incidono sulla scelta di emigrare. Un esempio interessante arriva dalla Danimarca, dove è stato lanciato un programma molto apprezzato per attrarre ricercatori internazionali, dimostrando come un buon rapporto con le istituzioni e buone politiche di supporto possano fare la differenza.
E fuori dall’Europa: storie di successo
Non solo in Europa, anche in Paesi come Taiwan e India, si applicano modelli che hanno dimostrato di funzionare nel trattenere i talenti. Taiwan, ad esempio, ha investito pesantemente nell’istruzione di base e ha incentivato i suoi cittadini a tornare a lavorare in Paese, ottenendo così risultati invidiabili. Allo stesso modo, l’India ha aperto il suo mercato agli investitori stranieri, sviluppando parchi tecnologici che rispettano e attraggono professionisti competenti e con esperienze consolidate.
Negli Stati Uniti, nonostante siano il Paese più attrattivo per i talenti globali, anche loro devono affrontare una fuga di cervelli che si fa sempre più evidente, in particolare nelle regioni della Rust Belt. Qui, la partenza dei giovani verso altre aree del Paese o all’estero lascia conseguenze non indifferenti. Non c’è dubbio che il problema sia sentito anche oltre le frontiere europee. Ogni governo ha le sue strategie per incentivare il ritorno dei propri cittadini, ma sembrerebbe che l’italia debba ancora trovare una strada efficiente in questo contesto di mobilità internazionale.
Una strada da percorrere: le sfide dell’italia
Negli ultimi 25 anni, diverse politiche sono state attuate in italia, ma gli interventi si sono rivelati inefficaci. Le detrazioni fiscali e i programmi di rientro non hanno raggiunto risultati significativi e finora hanno coinvolto percentuali minime di ricercatori. La legge “Controesodo“, benché voluta con buone intenzioni, ha visto una risposta scarsa e insufficiente al problema. Le Regioni italiane, in modo autonomo, hanno provato a sviluppare iniziative per mantenere i giovani, ma in larga misura questi sforzi rimangono isolati e sporadici, lontani da un vero piano complessivo.
Ciò che servirebbe è una strategia di lungo termine, capace di affrontare le problematiche alla radice, come la precarietà del lavoro giovanile e la mancanza di incentivi per i giovani ricercatori. Il quadro italiano, purtroppo, evidenzia carenze che non possono più essere ignorate. La speranza di vedere tornare i tanti giovani che oggi sono sparsi in tutto il mondo è legata a un cambiamento profondo delle politiche, oltre che a una maggiore visione e responsabilizzazione delle istituzioni.
Dunque, la fuga di cervelli non è solo un fenomeno da monitorare, ma una questione da risolvere, per il bene del futuro di un’intera generazione che merita di trovare opportunità e valorizzazione nel proprio Paese.