Il recente decreto sulla didattica a distanza ha sollevato numerosi dibattiti, a tal punto che le parole di Paolo Miccoli, presidente di United, rimbalzano tra le aule universitarie e gli uffici ministeriali. L’obiettivo sembra essere quello di regolare un settore in continua evoluzione, ma le misure introdotte appaiono limitative per le università telematiche e le innovazioni tecnologiche. Vediamo nel dettaglio quali sono le critiche e le aspettative legate a questo decreto.
Paolo Miccoli non è certo nuovo a critiche costruttive sui temi dell’istruzione. Sottolinea come il decreto sulla didattica a distanza, sebbene segni un passo importante verso il dialogo tra il Ministero e gli attori del sistema educativo, presenti diverse lacune. Per Miccoli, il rapporto minimo tra studenti e docenti, previsto dal decreto, sembra ignorare un aspetto cruciale: la qualità della formazione non è determinata dal numero degli insegnanti, ma dalla loro preparazione e dalla loro capacità di adattare la didattica alle risorse tecnologiche. In un’epoca in cui l’intelligenza artificiale offre strumenti didattici adattabili a ciascun studente, l’obbligo di svolgere esami in presenza risulta una retrocessione rispetto ai progressi fatti, creando di fatto un opportunity lost per il Paese.
Un altro nodo cruciale del decreto è l’obbligo di svolgere l’attività didattica in forma sincrona. Questa decisione ha scatenato il malcontento di un’ampia schiera di studenti, molti dei quali potrebbero avere necessità di un approccio più flessibile per conciliare studio e impegni lavorativi o personali. Come rammenta Miccoli, il DM del 2003 già prevedeva corsi a distanza che garantissero un’alta indipendenza da vincoli di orario e presenza fisica. Non è difficile intuire come una misura del genere possa risultare poco utile all’efficacia dell’apprendimento e, anzi, possa pregiudicare le opportunità per chi non può seguire le lezioni in diretta.
Limitare i corsi in presenza solo a specifiche convenzioni con università non telematiche rappresenta un altro punto controverso del decreto. Questa scelta, a parere di Miccoli, esclude attori chiave come gli IRCCS e i centri di ricerca, che non solo arricchirebbero il panorama formativo, ma garantirebbero anche l’accesso a un numero maggiore di studenti a percorsi universitari e opportunità di apprendimento. Risulta chiaro, quindi, come le decisioni prese possano influire negativamente sul capitale intellettuale della nazione e sulle possibilità di crescita del sistema educativo.
Infine, il divieto per le università telematiche di richiedere accreditamenti per nuovi corsi di studio, se il piano prevede più di un terzo delle proposte già accreditate, solleva ulteriori interrogativi. Miccoli conclude evidenziando come questa misura risulti eccessivamente restrittiva e non faccia giustizia al lavoro già svolto dagli atenei. Non si tratta solo di una limitazione sul numero di corsi offerti, ma una soffocante mancanza di supporto per il futuro sviluppo della didattica digitale. La preoccupazione di Miccoli è che queste barriere possano ostacolare l’innovazione, riducendo così le possibilità di accesso e formazione per un numero sempre maggiore di studenti.
L’analisi di Paolo Miccoli sul decreto offre un interessante spunto di riflessione sul futuro della didattica a distanza in Italia. È chiaro che il cammino verso una normativa davvero efficace e aperta all’innovazione sembra ancora lungo.